TRE PONTEFICI AD AUSCHWITZ
Del tutto palesi le differenze - non solo pastorali, ma anche di stile - degli ultimi tre pontefici. Tuttavia se c'è una cosa che li lega è la loro netta condanna allo sterminio perpetrato nei campi di concentramento da parte del regime nazista (con l'appoggio e la complicità, fra gli altri, del fascismo) in cui furono trucidati con metodico disprezzo della vita milioni e milioni di persone: per lo più ebrei ma anche zingari, omosessuali, testimoni di Geova.
Attraverso le parole pronunciate e i gesti compiuti dai tre pontefici possiamo meglio capire come la Chiesa Cattolica abbia letto quella disgraziatissima pagina di storia
Giovanni Paolo II, che era polacco e quindi tornava in patria, si recò ad Auschwitz il 7 giugno 1979. Proprio dentro il lager, il papa celebrò l'Eucarestia e cominciò la sua commovente omelia con queste parole: «Luogo costruito sull’odio e sul disprezzo dell’uomo nel nome di un’ideologia folle, luogo costruito sulla crudeltà. Ad esso conduce una porta, ancora oggi esistente, sulla quale è posta una iscrizione: “Arbeit macht frei”, che ha un suono beffardo, perché il suo contenuto era radicalmente contraddetto da quanto avveniva qua dentro». Poi Giovanni Paolo II continuò: «Può ancora meravigliarsi qualcuno che il Papa, nato ed educato in questa terra, il Papa che è venuto alla Sede di San Pietro dalla diocesi sul cui territorio si trova il campo di Auschwitz, abbia iniziato la sua prima Enciclica con le parole Redemptor Hominis e che l’abbia dedicata nell’insieme alla causa dell’uomo, alla dignità dell’uomo, alle minacce contro di lui e infine ai suoi diritti inalienabili che così facilmente possono essere calpestati ed annientati dai suoi simili? Basta rivestire l’uomo di una divisa diversa, armarlo dell’apparato della violenza, basta imporgli l’ideologia nella quale i diritti dell’uomo sono sottomessi alle esigenze del sistema, completamente sottomessi, così da non esistere di fatto?».
Benedetto XVI visitò Auschwitz il 28 maggio 2006. Sul papa tedesco pesava la storia che così pesantemente aveva coinvolto il suo popolo di origine. Non celebrò messa, ma in quell’occasione pronunciò parole tra le più struggenti di tutto il suo pontificato: «Io sono oggi qui come figlio del popolo tedesco, e proprio per questo devo e posso dire come lui: Non potevo non venire qui. Dovevo venire. Era ed è un dovere di fronte alla verità e al diritto di quanti hanno sofferto, un dovere davanti a Dio, di essere qui come successore di Giovanni Paolo II e come figlio del popolo tedesco – figlio di quel popolo sul quale un gruppo di criminali raggiunse il potere mediante promesse bugiarde, in nome di prospettive di grandezza, di ricupero dell’onore della nazione e della sua rilevanza, con previsioni di benessere e anche con la forza del terrore e dell’intimidazione, cosicché il nostro popolo poté essere usato ed abusato come strumento della loro smania di distruzione e di dominio. Sì, non potevo non venire qui». Quindi Papa Ratzinger aggiunse: «Noi non possiamo scrutare il segreto di Dio – vediamo soltanto frammenti e ci sbagliamo se vogliamo farci giudici di Dio e della storia. Non difenderemmo, in tal caso, l’uomo, ma contribuiremmo solo alla sua distruzione. No – in definitiva, dobbiamo rimanere con l’umile ma insistente grido verso Dio: Svégliati! Non dimenticare la tua creatura, l’uomo! E il nostro grido verso Dio deve al contempo essere un grido che penetra il nostro stesso cuore, affinché si svegli in noi la nascosta presenza di Dio – affinché quel suo potere che Egli ha depositato nei nostri cuori non venga coperto e soffocato in noi dal fango dell’egoismo, della paura degli uomini, dell’indifferenza e dell’opportunismo».
«Prendere la parola in questo luogo di orrore, di accumulo di crimini contro Dio e contro l’uomo che non ha confronti nella storia, è quasi impossibile – ed è particolarmente difficile e opprimente per un cristiano, per un Papa che proviene dalla Germania. In un luogo come questo vengono meno le parole, in fondo può restare soltanto uno sbigottito silenzio – un silenzio che è un interiore grido verso Dio: Perché, Signore, hai taciuto? Perché hai potuto tollerare tutto questo? È in questo atteggiamento di silenzio che ci inchiniamo profondamente nel nostro intimo davanti alla innumerevole schiera di coloro che qui hanno sofferto e sono stati messi a morte; questo silenzio, tuttavia, diventa poi domanda ad alta voce di perdono e di riconciliazione, un grido al Dio vivente di non permettere mai più una simile cosa.
È ancora questo lo scopo per cui mi trovo oggi qui: per implorare la grazia della riconciliazione – da Dio innanzitutto che, solo, può aprire e purificare i nostri cuori; dagli uomini poi che qui hanno sofferto, e infine la grazia della riconciliazione per tutti coloro che, in quest’ora della nostra storia, soffrono in modo nuovo sotto il potere dell’odio e sotto la violenza fomentata dall’odio.
Quante domande ci si impongono in questo luogo! Sempre di nuovo emerge la domanda: Dove era Dio in quei giorni? Perché Egli ha taciuto? Come poté tollerare questo eccesso di distruzione, questo trionfo del male? Ci vengono in mente le parole del Salmo 44, il lamento dell’Israele sofferente: “…Tu ci hai abbattuti in un luogo di sciacalli e ci hai avvolti di ombre tenebrose… Per te siamo messi a morte, stimati come pecore da macello. Svégliati, perché dormi, Signore? Déstati, non ci respingere per sempre! Perché nascondi il tuo volto, dimentichi la nostra miseria e oppressione? Poiché siamo prostrati nella polvere, il nostro corpo è steso a terra. Sorgi, vieni in nostro aiuto; salvaci per la tua misericordia!” (Sal 44,20.23-27). Questo grido d’angoscia che l’Israele sofferente eleva a Dio in periodi di estrema angustia, è al contempo il grido d’aiuto di tutti coloro che nel corso della storia – ieri, oggi e domani – soffrono per amor di Dio, per amor della verità e del bene; e ce ne sono molti, anche oggi».
Il 29 luglio fu la volta di papa Francesco che rispetto ai suoi predecessori scelse un’altra modalità per quella visita: il silenzio. «Io vorrei andare in quel posto di orrore senza discorsi, senza gente, salvo quelle necessarie: da solo entrare, pregare, e che il Signore mi dia la grazia di piangere», aveva detto. Le uniche parole di Francesco sono quelle che ha scritto sul libro dei visitatori: «Signore abbi pietà del tuo popolo, Signore perdona per tanta crudeltà». E fu una visita silenziosa. Il papa entrò a piedi da solo, raggiunse il Blocco 11 e la piazza dell’appello che era anche quella deputata alle impiccagioni, fatte più che altro a scopo dimostrativo: i morti venivano lasciati a marcire per giorni e giorni. Lo aspettavano dieci sopravvissuti: Francesco parlò con ognuno di loro. Poi entrò nella cella di Massimiliano Kolbe, il francescano che offrì la propria vita per salvare quella di un altro prigioniero già condannato. In questa cella Kolbe fu lasciato morire di fame e in questa cella il papa restò in ginocchio a pregare per lungo tempo.
I fatti della Shoah riescono comunque, anche a distanza di tempo, a impressionare chiunque si avvicini in qualche modo a loro. Celebrare una Giornata della Memoria serve a ricordare ciò che è stato e che, speriamo, non sia più. Purtroppo qua e là spuntano ulteriori rigurgiti razzisti, si ritorna a parlare di “purezza della razza”. Si ha la sensazione che in molti non sappiano più che milioni e milioni di persone siano morte innocenti, senza alcuna colpa. Altri imputano a Dio la colpa di aver permesso tutto ciò. “Dov’era Dio?”, hanno implorato persino i pontefici in un momento di sconforto. Dio era lì, proprio accanto ai bambini, alle donne e agli uomini che morivano, così come era accanto al suo Figlio messo in croce, anche lui innocente. Era a lì a piangere sulla malvagità di cui, nonostante i Suoi insegnamenti, è capace l’uomo.
gdg