L’ANTICO CONVENTO DEI CAPPUCCINI E LA CHIESA DI S. FRANCESCO
Molti augustani hanno frequentato le scuole elementari in quell’edificio che si è soliti chiamare “Cappuccini” e che si trova nell’attuale via Generale La Ferla. Certamente in molti si saranno chiesti del perché di una tale denominazione: la risposta corrente è che quell’edificio era l’antico convento dei Padri Cappuccini. Non è proprio così e ciò perché l’antico Convento dei Cappuccini fu completamente abbattuto e l’edificio, a uso scuola, fu riedificato nella prima metà del Novecento.
Ma andiamo con ordine.
La fondazione del Convento
L’antefatto è costituito da due chiesette, abbandonate e semidiroccate, l’una consacrata a S. Martino e l’altra a S. Giuliano. Esse si trovavano all’estrema propaggine dell’abitato che agli inizi del Seicento costituiva la nostra città e attirarono l’attenzione di Padre Mariano di Giarratana. Questi chiese alle autorità municipali del tempo il permesso di erigere un convento per i Cappucini. La municipalità fece di più: si incaricò dei lavori e ne coprì per intero le spese, che quindi furono a carico della città. Abbattute le due chiesette, il 6 gennaio 1606 era lo stesso Castellano e Capitan d’Armi a porre solennemente la prima pietra della nuova costruzione. E ne venne fuori un’opera di tutto rispetto.
Il convento risultò composto da trenta celle, oltre naturalmente ai locali comuni. Fu eretta anche una chiesa, di discrete dimensioni che fu consacrata a S. Francesco d’Assisi. Il tutto era completato da una estensione di terreno che, per circa 9.000 mq, che si estendeva fino all’attuale via Alabo e che era denominata Silva. In essa si trovavano ventidue ulivi che per lungo tempo costituirono un buon sostentamento per i cappuccini del convento.
Nel 1681 il Viceré di Sicilia emise un proclama con il quale il convento passava di proprietà per esigenze di Governo. Ciò perché, dovendosi ampliare la piazza del Castello Regio, i ministri della guerra stabilirono che il monastero di Santa Caterina (che era situato nel quartiere che va dall’attuale piazza Duomo fino a via Roma) fosse demolito e che le monache benedettine lì allocate fossero trasferite appunto nel convento dei Cappuccini.
L’atto incontrò però la strenua resistenza del Padre Provinciale del tempo, P. Benedetto di Siracusa. Questi si recò a Palermo per chiedere udienza al Viceré. L’udienza fu accordata ma P. Benedetto non ottenne nulla. Si rivolse quindi ai potenti che furono più solleciti ad ascoltare la voce del padre Cappuccino. Il Viceré si vide sottoposto ad un vero fuoco di fila diplomatico: particolarmente pesanti furono le pressioni che arrivarono dal Gran maestro di Malta e dall’Ambasciatore di Spagna in Roma. Fu grazie a queste pressioni che da Palermo furono inviati in Augusta mons. Fortezza, Vescovo di Siracusa, e il Colonnello Ingegnere Maggiore D. Carlo Nerimberghi. Il sopralluogo si protrasse per qualche giorno e, alla fine, fu stabilito che era meglio lasciare il convento dei Cappuccini ai seguaci di S. Francesco. Per quanto riguarda le Benedettine del monastero di Santa Caterina, fu stabilito che esso venisse abbattuto e ne fosse fabbricato un altro o nel sestriere di S. Biagio o in quello di S. Andrea.
Intanto, però, il convento era andato via ingrandendosi. Ormai era dotato di quattro corridoi oltre che di un grande terrazzo. In alcuni testi si ricorda particolarmente “la cisterna del refettorio, opera di architetti inglesi, che poggia su tre colonne, ed è singolare per arte, grandezza e per freschezze delle acque”.
Il terremoto del 1693
Arrivò così il nefasto 1693. Le imponenti scosse del 9 e dell’ 11 gennaio rasero al suolo la nostra cittadina. Non fecero eccezione i conventi e le chiese. Ecco la testimonianza di una monaca del monastero delle Benedettine, la quale afferma che nel terremoto del 9 gennaio “... li venerabili conventi di S. Domenico, dei Rev. Padri Cappuccini, dei Minori Osservanti e dei Padri Paolini restorno totalmente inabitabili. Le chiese tutte patirono il medesimo fracasso..” E non è finita qui. La medesima monaca, riferendosi alla scossa dell’11 gennaio aggiunge: “Il secondo terremoto che replicò ad ore 21, fu così gagliardo e furioso che totalmente spiantò tutti i conventi, tutte le chiese, tutti i Palazzi, e tutte le case, senza lasciare nella città, né segno d’edifici, né vestigio d’abitazioni, né forme di strade di strade, né un palmo di pianura... “. Come è facile intuire da questo breve resoconto lo spettacolo doveva essere, a dir poco, raccapricciante. L’inorridita monaca, a cui va tutta la nostra comprensione e il nostro affetto, cita espressamente il convento dei Cappuccini. Da altra fonte sappiamo che esso, così come la Chiesa di S. Francesco, fu ridotto in “uno stato pietoso a vedersi”.
Nell’area della “Silva”, dopo circa due mesi dal sisma, si eresse, con mezzi di fortuna, una baracca che per circa otto mesi svolse le funzioni di parrocchia. In seguito fu sostituita da una baracca più grande nel piano della Matrice, anch’essa completamente distrutta, che funse da “Chiesa sacramentale”.
Come spesso accade dopo immani disastri di questo genere, la ricostruzione fu anche l’occasione per fare meglio. Il convento, infatti, subì, degli ampliamenti. Ciò non fece, naturalmente, dimenticare ai nostri frati che essi erano tutti discepoli di Francesco e che avevano fatto dell’umiltà e della povertà la loro regola di vita: nonostante anche qualche piccola pressione, i Padri Cappuccini mantennero una generale linea di semplicità nelle nuove strutture architettoniche, senza mai cadere nei preziosismi che pure l’epoca suggeriva, come testimonia l’immenso patrimonio barocco di cui si pregia la nostra Sicilia e che vide alla luce proprio in seguito al terremoto del 1693.
Ciò nonostante, il nostro convento assunse ben presto un posto di rilievo nell’ambito culturale della provincia monastica. Fu soprattutto la biblioteca a costituire un vero e proprio “faro”: in essa furono conservati pregevoli codici, antichi manoscritti, edizioni cinquecentesche delle rinomate stamperie veneziane, testi teologici e storici.
Nel 1786 arrivò un ordine regio di soppressione del convento che però non ebbe seguito. Ciò perché i frati erano molto utili all’attività governativa in quanto avevano ben più miti pretese nel lavoro di scritturali rispetto al personale governativo: “per i ripieghi dell’amanuensi ministeriali, li quali non si lasciano di profittarsi” sono le parole di Zuppello per spiegare il sopravvivere dei nostri frati. E per tutto il secolo XVIII il convento fu attivo. Ma le condizioni dei frati andarono via regredendo. Una testimonianza del 1808 ci informa che essi, ormai in pochi, erano costretti a vivere del pasto dei poveri, concesso dalla cittadinanza, e di elemosine; non di rado erano costretti a cedere la legna di qualche bel ramo dei loro secolari ulivi per poterne ricavare lo stretto necessario per sopravvivere.
La legge soppressiva dei beni ecclesiastici
Intanto il 7 luglio 1866 veniva promulgata la famosa legge n. 3036, estesa da Borgatti e da Scialoja, che l’anno successivo trovò ulteriore inasprimento con la 15.8.1867 di Rattazzi. La legge fu usualmente conosciuta come “legge soppressiva o eversiva dei beni ecclesiastici”.
Le conseguenze della legge furono addirittura catastrofiche per i possedimenti ecclesiastici e la letteratura del tempo ce ne da testimonianza: basta andarsi a rileggere qualche bella pagina de “I viceré” di Federico De Roberto.
L’articolo 1 prevedeva che fosse tolta la personalità giuridica a ordini, corporazioni e congregazioni religiose che imponessero la vita in comune. Gli ecclesiastici colpiti dal provvedimento dovevano quindi abbandonare le loro sedi, svestendo l’abito monastico per quello talare ed attendere il trasferimento a domicilio coatto. Unica eccezione, all’articolo 6, era fatta per le monache cui si consentiva di restare in convento, se in numero superiore a sei, venendo altrimenti raggruppate in un’unica sede provinciale.
L’articolo 11 prescriveva che i beni ecclesiastici confiscati passassero al Demanio statale, salvo quelli destinati al culto, a scuole, ad ospedali od ospizi di mendicità. Per gli oggetti rinvenuti nei chiostri, preventivamente catalogati, si prevedeva la vendita all’asta a cura dei Ricevitori del Registro. Gli arredi sacri dovevano invece consegnarsi dai rettori delle chiese conventuali ai Comuni, i quali li avrebbero messi a disposizione degli eventuali officianti (del solo clero secolare), posto che dette chiese fossero rimaste in vita, ancorché non parrocchiali o monumentali.
I ricavati della vendita dei beni immobili o dalla rendita enfiteutica da essi derivante, erano incamerati dallo Stato, che ne destinava il 5% a favore dell’istituendo Fondo per il Culto, sostitutivo della soppressa Cassa Ecclesiastica. Lo Stato inoltre, avrebbe corrisposto annualmente a i Comuni il “quarto di rendita”, relativo ai beni ricadenti nei loro ambiti giurisdizionali.
In sostanza, quindi, a parte le motivazioni ideali della legge, vi era il pratico intento di rimediare con una misura straordinaria al disavanzo dello Stato che, provato dalla guerra con l’Austria, non considerava sufficienti le entrate ordinarie, ammontanti annualmente a poco più di 500 milioni. Che l’intento fosse valido, l’avrebbero presto dimostrato i 600 milioni incamerati dalla vendita all’asta dei beni appartenenti ai 25.000 enti ecclesiastici soppressi.
Inoltre, va osservato che l’improvvisa disponibilità di un così ingente patrimonio edilizio, doveva consentire ad enti statali e locali - tutti privilegiati nella sua assegnazione - la soluzione di molti problemi connessi al reperimento di sedi per i pubblici servizi. Elemento, questo, non trascurabile per mitigare l’impatto di questi provvedimenti che, specie nel Meridione, potevano avere attuazione traumatica.
L’applicazione della legge soppressiva dei beni ecclesiastici fu naturalmente applicata anche ad Augusta e i conventi e il monastero presente nella nostra città ne furono interessati: anche il convento dei Cappuccini fu costretto a sottomettersi alle nuove disposizioni.
Il 20 aprile 1870, il Consiglio Comunale approvò l’atto di cessione. A fronte di una canone annuo di £. 44, l’atto comprendeva una parte del pianterreno dell’ex convento con due stanze e un atrio, e tutto il primo piano con 29 celle, 4 corridoi, una sala, una cappella, una biblioteca e un locale igienico. L’orto e la “silva” facevano parte dell’atto; restavano esclusi, invece, la chiesa di S. Francesco d’Assisi, gli oggetti sacri, il mobilio e i libri. L’orto fu dato quasi immediatamente in affitto. I ventidue ulivi della “silva”, invece, resistettero solo qualche mese: infatti, furono tagliati e la legna così ricavata fu venduta. La “silva”, in questo modo, divenne pressoché improduttiva anche come pascolo o seminativo semplice. Nel 1879, il Comune chiese pertanto l’affrancamento dal canone, cosa che ottenne. Quindi si deliberò la lottizzazione della zona che fu quindi destinata a edificazione. La vendita fu comunque soggetta a enfiteusi. Nell’atto deliberativo si fa esplicito riferimento alle condizioni del muro esterno, lungo oltre centocinquanta metri, che pare turbasse non poco il decoro della via Maestra: il muro fu infatti immediatamente abbattuto.
Fu redatto, pertanto, il piano di lottizzazione che comprendeva 19 lotti.
Di questi, 8 erano prospicienti sull’attuale via P.pe Umberto: per questi fu stabilito un prezzo di 2,5 lire a metro quadro e fu imposta la condizione che le costruzioni (che potevano svilupparsi su un pianterreno e un primo piano) dovessero uniformarsi al progetto redatto dal Comune.
I restanti 11 lotti si affacciavano sull’allora via Marina Ponente, oggi via X Ottobre. Il prezzo fu stabilito a 1,2 lire al metro quadro.
Ai possidenti dell’epoca il prezzo sembrò esagerato per una zona così distante dal centro della città e la prima asta andò completamente deserta. E neanche il successivo ribasso che portò a 1 lira per i lotti di prestigio e a 0,8 lire per quelli di spalle per ogni metro quadro riuscì ad attirare le attenzioni di alcuno. Soltanto nel 1870 ci fu un’unica offerta per i lotti della strada Maestra, a patto però che fosse concesso la costruzione del solo piano terra. Il consiglio comunale, pertanto, decise di non procedere, almeno per il momento, alla vendita. Era però chiaro che le condizioni non potevano essere quelli proposti in precedenza e se effettivamente procedere alla vendita dei lotti si doveva provvedere alla liberalizzazione, cosa che avvenne qualche anno dopo.
La chiesa di S. Francesco e un culto
Per intanto la chiesa seguiva un destino diverso rispetto al corpo del convento.
Descriviamo un po’ questa chiesa.
Il prospetto della chiesa era molto semplice e culminava con un’esile cella campanaria di modeste proporzioni.
Aveva una lunghezza di circa undici metri, come si rileva dai documenti custoditi nell’Archivio Storico Municipale.
Sopra il portale, insisteva la finestra della cantorìa, simile a quelle che si aprivano su via Marcello (oggi v. Generale La Ferla).
All’interno si poteva accedere tramite due ingressi, uno principale praticato su via Umberto e l’altro laterale su via La Ferla, tramite una gradinata.
Varcato l’ingresso ci si immetteva nel vestibolo il cui piano era ribassato rispetto a quello della navata, in quanto esistevano delle cripte per le sepolture comuni e dei frati.
Addossati alle pareti vi erano diversi altari, dove erano collocati: una grande tela riguardante la Madonna degli Angioli, la venerata statua della Madonna dei Poveri, in cartapesta, sulla cui base era inciso il nome: “P. Innocenzo di Caltagirone”, e la relativa tela dipinta dal valente artista P. Salvatore di Vizzini (10)
Nell’abside, dominava il pregevole altare maggiore in legno intagliato, la cui alzata era scandita da colonnine e nicchiette che accoglievano altrettante statuine di squisita fattura (11). Esso formava un unico corpo con il tabernacolo ligneo che incorniciava una “MAESTà”, attribuita la siracusano Domenico Minniti (12).
Nella sagrestia, che era composta da diversi vani, si notavano numerosi quadri (purtroppo perduti), ed un pregevole mobile settecentesco per riporre i paramenti sacri, fortunatamente trasferito nella chiesa di Santa Maria del Soccorso.
La prima Domenica di Agosto si celebrava con particolare solennità, la festa della MADONNA dei POVERI, venerata dagli augustani più indigenti.
Essa merita di essere conosciuta in quanto rappresentava una delle poche occasioni di aggregazione del popolo, dedito per il maggior tempo alle fatiche quotidiane.
Nei tempi passati era una delle feste principali della città, e perciò vi era molto concorso dei fedeli che venivano dai numerosi quartieri.
L’inizio dei festeggiamenti era annunziato dalle liete note di una banda musicale che “s’invitava da uno dei paesi vicini”, in quanto ad Augusta non esisteva ancora il corpo bandistico municipale, istituito nel 1863 dal Sindaco Giuseppe Surdi.
La sera della Vigilia, si “cantava il vespero solenne con la cera tutta accesa, mentre veniva illuminata con ceri e “globi” d’acetilene, una parte della via Ferdinandéa (oggi P.pe Umberto) ed il prospetto della chiesa (14).
Il giorno della festività era particolarmente atteso dai popolani che di buon ora si recavano in chiesa per assistere alle numerose officiature, tra cui quella solenne celebrata dal Guardiano con l’intervento di tutti i frati del Convento.
Nel pomeriggio, il simulacro della Vergine rivestito degli ex-voto, veniva collocato su un fercolo di fattura settecentesca (15), e tra lo scampanio e lo sparo di mortaretti, appariva dinanzi la chiesa.
Il pesante fercolo, portato a spalla dai fratelli della Pia Unione “Carcarari e Molinari”, percorreva le principali strade cittadine seguito dai numerosi fedeli e devoti con l’accompagnamento della banda di “strumenti”.
Al termine della processione, dopo la solenne benedizione eucaristica, il popolo si accalcava alla Marina, dove si “accendeva un artificio di fuoco”, costituito da botti con luminarie (16).
Dai conti della festa che rimontano al 1836, si rileva che le spese venivano affrontate con le offerte dei fedeli e i risparmi del Convento, che ammontavano a circa dieci/dodici onze.
La devozione per la Madre dei Poveri era sentita dagli augustani e taluni facevano celebrare Messe al suo altare “in ogni Sabato”, come attestano diversi atti notarili (17).
Con la chiusura del culto della chiesa, la festa non venne più celebrata e l’antico simulacro della Vergine fu affidato alla famiglia Spina, che lo espose con tanta venerazione nella propria casa di via Megara al civico 430, sino al 1967, allorquando fu ceduto alla chiesa del Soccorso (18).
Da allora si è persa ogni traccia!
Unica testimonianza esistente sino ai giorni nostri, è una riproduzione a tempera dell’immagine della “MATER PAUPERUM”, esposta nell’edicola votiva di via Alabo angolo via Umberto, nella parte meridionale dell’antica Silva.
Ultimo ricordo della venerazione degli augustani per la Vergine dei poveri!
Nel 1884 fu affidata a P. Benedetto Greco, predicatore Cappuccino, che sarà una delle figure centrali di questa nostra storia e di cui impareremo a conoscere il coraggio e la dedizione nel prosieguo. P. Benedetto procedette a sistemare l’interno della chiesa. Gli arredi furono completamente rinnovati, così come il tetto e il pavimento. La chiesa di S. Francesco diventò ben presto un punto di riferimento per le forze clericali presenti in città e il Cappuccino non mancò di far notare la sua opera alla cittadinanza intera, tanto che un giornale locale dell’epoca scriveva sarcasticamente a proposito: “Questo Padre Cappuccino, tornato ad Augusta come un bramino, ha posto le sue spire tutto il paese, e d’una città del liberalismo, n’ha formato una città del clericalismo”.
La trasformazione in scuola
Ma torniamo al convento che ormai è di proprietà del Comune. Il primo uso che ne fu fatto fu quello di scuola pubblica riservata alle ragazze. Si era progettata anche una scuola di musica che poi però non fu mai realizzata. Lo stesso progetto prevedeva l’apertura al pubblico della “silva”: si intendeva, in sostanza, fare dei giardini pubblici. Poi, il Comune, in ristrettezze economiche preferì cedere il terreno ad un prezzo notevolmente ribassato rispetto alle pretese del 1879 e liberalizzando del tutto le condizioni di edificabilità.
Nel 1903 si prospetta un nuovo uso della costruzione. Era stato, infatti, approvato un progetto che prevedeva la trasformazione del pianterreno del convento in carcere mandamentale, il quale già dal 1870 era stato trasferito alla Grazia. Era stata anche stanziata la somma di £. 9.000, ma non se ne fece nulla perché sembrò agli amministratori del tempo che la destinazione più consona rimanesse pur sempre quella di scuola. In quest’ottica nel 1912 si incamerò anche la chiesa di S. Francesco e una casetta che al lato nord si appoggiava alla medesima. Il finanziamento dell’opera fu richiesto al Fondo per il Culto. Lo scoppio della Prima Guerra Mondiale impedì che si procedesse negli appalti e quindi nei lavori.
Il 1922 segna la ripresa dei progetti per la realizzazione di una scuola, almeno per quanto riguarda il pianterreno. A tal proposito la municipalità contrasse un mutuo per la realizzazione dei lavori. Ma la previsione di tempi lunghi, spinse gli amministratori a provvedere al restauro dei locali esistenti in funzione come scuole.
Intanto nel 1926 finalmente si formalizzò l’acquisto della chiesa di S. Francesco, anche se la transazione fu perfezionata soltanto nel 1931 quando il Comune corrispose la somma di £. 120.000 che dovevano servire per la realizzazione di una nuova chiesa nello stesso luogo dove si trovava la chiesa da demolire.
Frattanto venivano appalti i lavori. Su progetto del geom. Bartolo Amato, l’impresa Scandurra aprì il cantiere nel novembre del 1932 e, per prima cosa, procedette alla demolizione del vecchio edificio. Questa parte dei lavori andarono abbastanza speditamente, tant’è che già nel gennaio del 1933 il vecchio convento era raso a suolo. A marzo, però ci fu l’intervento del Genio Civile, il quale consigliò di estendere l’edificio fino alla via X Ottobre. A seguito di ciò il Consiglio Comunale bloccò i lavori. Si procedette pertanto, alla redazione di un nuovo progetto che prevedeva, oltre all’estensione territoriale, anche un primo piano e un’ampia palestra all’interno. I nuovi lavori ebbero come direttore l’ing. Corrado D’Agostino. I lavori, però, non ebbero immediata prosecuzione ma dovettero subire un inevitabile arresto per procedere all’espropriazione dei suoli e degli immobili privati a ponente del convento. Inoltre si dimostrarono del tutto insufficienti i fondi stanziati. Poi c’era il contratto da rescindere il contratto con l’impresa per la variazione dei lavori. Insomma, alla fine si persero altri tre anni senza che una sola pietra venisse posta sull’altra.
Nell’estate del 1936 ripresero i lavori. La nuova impresa appaltatrice era “La Nuova Messina”. Questa tuttavia si dimostrò del tutto inaffidabile: ben presto si deteriorano i rapporti con l’amministrazione a motivo della lentezza con cui i lavori procedevano, tanto che nel gennaio del 1939 soltanto i quattro quinti dell’opera erano completati. Ciò provocò la rescissione del contratto che peraltro provocò l’azione giudiziaria della ditta contro il Comune.
Giunse nel frattempo la Seconda Guerra Mondiale che naturalmente poneva ben altri problemi che non quello dell’erezione di una scuola.
Soltanto nel 1955 l’opera poté essere completata e tuttora è sede di scuole elementari, anche se ha dovuto subire profondi restauri per i danni provocati dal terremoto del 13 dicembre 1990.