"Non pronuncerai invano il nome del Signore, tuo Dio..." SECONDO COMANDAMENTO



V. 7: "Non pronuncerai invano il nome del Signore, tuo Dio, perché il Signore non lascerà impunito chi pronuncia il suo nome invano."

Per capirne il senso è necessario capire il significato che il "nome" aveva presso il popolo ebraico. E' abbastanza conosciuta l'importanza che l'antico Oriente dava al nome. Il nome non è un semplice "flatus vocis" o una designazione convenzionale.

Il nome, in Oriente, esprime la natura e la particolarità di una persona, ciò che rende riconoscibile. Chi conosce il nome di una persona ha una specie di potere sopra di essa. Infatti certe persone mantenevano segreto il proprio nome per non esporsi al giudizio della gente! Da questa credenza nel potere del nome, si intuisce l'importanza che il nome rivestiva in materia di culto. Il nome divino appariva come carico della presenza attiva della divinità. E' questo il motivo per cui il nome della divinità svolgeva un ruolo tanto importante nella magia, nella superstizione e negli esorcismi.

Sulla bocca di un orientale, la conoscenza del nome della divinità, si pensava di poter captare (piegandolo a proprio vantaggio) il potere della stessa divinità: costringendola a porsi a servizio degli uomini. Invece Dio, aveva rivelato il proprio nome a Mosè (Es. 13,3) e, attraverso Mosè a tutto Israele. Spontaneamente, liberamente. Consegnando il suo nome Jahvè aveva consegnato se stesso. L’unico nome è “Io sono colui che sono”, cioè Io sono colui che è presente con voi, che non può essere fissato e del quale si può disporre. Rivelato per l'onore di Jahvè e per la salvezza del popolo, questo nome era la sua più grossa responsabilità. Il nome divino era il sostitutivo di Dio: Santo come Jahvè stesso era Santo; apparteneva al dominio del culto e non poteva associarsi nella vita di ogni giorno agli usi profani. Doveva essere venerato, onorato, santificato mai profanato, mai "pronunciato falsamente" (a vuoto).

Ogni uso abusivo, non cultuale o profano, del nome di Jahvè, è pertanto formalmente proibito dal secondo comandamento.

In concreto cosa proibisce il secondo comandamento?

Il secondo comandamento proibisce di nominare il nome di Dio invano come avviene con la bestemmia e il linguaggio volgare associato al Suo nome, oppure con un falso giuramento. Si nomina il nome di Dio invano quando si impreca con odio o di sfida contro il cielo, quando si usano contro Dio parole irriverenti e scandalose, oppure semplicemente quando si parla del Signore con leggerezza, ironia, mancanza di rispetto o inutilmente e a sproposito, senza senso, per tornaconto, per rabbia o per disprezzo.

È stupido accusare Dio quando la vita ci presenta il conto con le sue fatiche e sofferenze, perché esse sono causate nella maggioranza dei casi dal peccato dell'uomo e dal male che c'è nel mondo.

Anche il falso giuramento è cosa grave verso Dio, in quanto significa prendere Dio come testimone di quello che si afferma. Quando il giuramento è veritiero e legittimo, mette in luce il rapporto della parola umana con la verità di Dio, mentre il falso giuramento, chiama Dio ad essere testimone di una menzogna. "Avete inteso che fu detto agli antichi: Non giurerai il falso, ma adempirai verso il Signore i tuoi giuramenti. Ma io vi dico: non giurate affatto: né per il cielo, perché è il trono di Dio; né per la terra, perché è lo sgabello dei suoi piedi" (Mt 5,33-35).

In sintesi, nel secondo comandamento, Dio esorta l'uomo a non “strumentalizzarlo”. Eppure l'uomo continua a “nascondersi” dietro il nome di Dio per perseguire i propri obiettivi e i propri fini. E maschera le proprie meschinità e i propri desideri di grandezza dietro il volto e la volontà di Dio.